LAVORO AUTOBIOGRAFICO

 

 

Ripensando al tuo percorso di formazione, vorrei ti chiedessi di raccontare una relazione educativa particolarmente significativa. Quali erano le caratteristiche e cosa ti ha insegnato.

 

 

L’esperienza che più mi ha formato dal punto di vista professionale l’ho vissuta otto anni fa. Avevo da poco conseguito il titolo polivalente per il sostegno e fui contattata dall’Unione Italiana Ciechi come insegnante domiciliare di un ragazzino cieco. Cercavano un docente che conoscesse sia il Braille che il Greco classico e, avendo io la maturità classica, ero dotata dei requisiti richiesti.

Mi presentai presso la sede provinciale dell’UIC dove mi spiegarono quale sarebbe stato il mio ruolo. In quell’occasione ebbi modo di conoscere una simpaticissima signora, cieca, che mi spiegò una cosa che nessun corso di formazione insegna: tutte le sensazioni e i momenti di rabbia che una persona cieca prova. Ricordo quella conversazione come se l’avessi tenuta ieri.

Successivamente, mi recai a casa del ragazzo: A., un simpaticissimo quattordicenne. All’inizio ricordo di essermi sentita molto in difficoltà nel parlare, ogni parola mi sembrava non spiegasse abbastanza e quando utilizzavo il verbo “vedere” provavo un forte imbarazzo.

Con il passare del tempo imparai a dire, senza difficoltà, al mio alunno “ci vediamo domani!”. La sua spontaneità nel parlare e nel raccontare i limiti della sua vita di adolescente non vedente erano davvero disarmanti. Non solo perché mi fece capire che piangersi addosso serve davvero a poco, ma anche perché sperimentai che per aiutare una persona con un handicap bisogna aiutarlo a riconoscere lo stesso e i conseguenti limiti.

Da subito andai a scuola per parlare con i docenti, A. frequentava la classe terza della scuola secondaria di primo grado. Concordammo le metodologie che io avrei seguito a casa in coerenza con il lavoro svolto a scuola. Affrontò senza difficoltà l’anno scolastico e gli esami.

Giunto settembre riprese il mio lavoro di insegnante domiciliare. Come per l’anno scolastico precedente andai a parlare con i docenti e concordai con loro quello che c’era da fare.

Cambiando il grado di scuola, ovviamente, si moltiplicarono le difficoltà nello studio. Soprattutto per la memorizzazione delle materie orali, i cui contenuti erano di gran lunga più consistenti rispetto a quelli dell’anno scolastico precedente.

Per questo motivo cercai di far afferire nella memorizzazione dei contenuti gli interessi del mio alunno. Infatti, A. era solito portare con sé oggetti tipo pomelli o bottoni che toccava continuamente come per scoprirne nuove caratteristiche. Decisi così di dare ad ognuno di quei piccoli oggetti un corrispondente nei contenuti che doveva studiare. Se, ad esempio, gli veniva assegnato un capitolo di storia, ad ogni bottone facevamo corrispondere una parola-chiave che, toccando l’oggetto, gli avrebbe fatto ricordare il concetto da esporre.

Per quanto riguardava le materie cosiddette “scritte” avevamo ogni tipo di ausilio o sussidio. Infatti potevamo avvalerci di un computer, con sintesi vocale e tasti provvisti di alfabeto Braille, e di una stampante Braille. Mentre, fino a qualche mese prima, avevamo avuto a disposizione soltanto una macchina da scrivere Braille. Tutti mezzi che col passare dei mesi l’UIC  aveva messo a disposizione del ragazzo.

Conclusi la mia esperienza al termine del quarto ginnasio, non continuai più per motivi personali, ma sono rimasta in contatto con A. e la sua famiglia ancora per un paio di anni.

Questa esperienza mi ha segnato tantissimo per il rapporto umano, perché per la prima volta ho vissuto la realtà di un alunno nella sua quotidianità.

Anche a livello professionale, però, mi ha dato tanto. In questa occasione, infatti, ho imparato a coordinare il mio lavoro con quello di altri docenti, dei genitori e di un’associazione così importante e ben strutturata come l’Unione Italiana Ciechi.