Il percorso educativo nella scuola costituisce un’esperienza di vita che, almeno nelle società di tipo occidentale, coinvolge tutti e per un lungo periodo. Se includiamo anche l’epoca degli studi universitari, riguarda almeno 20-25 anni della nostra esistenza. Comprende, quindi, per tutti i soggetti, gran parte del periodo evolutivo, per alcuni lo copre completamente, per altri procede oltre. L’esperienza scolastica, dunque, non può non lasciar traccia di sé in ogni individuo, sia nel bene che nel male. Se ascoltiamo il racconto di adulti, molti di loro riconosceranno, nella propria esperienza a scuola, un alto valore formativo e di crescita, per altri sarà, all’opposto, un’esperienza solo da dimenticare. Nei colloqui con i genitori di bambini, specie se con problemi scolastici, inevitabilmente ritorna la memoria delle loro pregresse esperienze tra i banchi, che possono avere un diverso valore nell’economia narcisistica (stima di sé) ed essere di aiuto nel sostenere il proprio figlio o, al contrario, costituire una interferenza oltremodo negativa. La frequenza scolastica, soprattutto l’ingresso a scuola nei primi anni e nei vari passaggi da un livello ad un altro, comporta uno sforzo adattativo da parte del bambino che può anche disvelare difficoltà nell’organizzazione psichica e cognitiva. D’altro canto l’esperienza scolastica è, potenzialmente, di grande significato per la formazione e crescita psicologica. Può dare un contributo rilevante al consolidamento e funzionamento dell’Io di un soggetto in età evolutiva. Gli scopi della scuola, mirati a favorire l’apprendimento, lo sviluppo emotivo, il contenimento, la crescita morale, l’esperienza dell’altro, il senso del gruppo, di fatto comprendono tutte le aree di funzionamento dell’Io. Di questo significato specifico possono, naturalmente, usufruire tutti i bambini e, a maggior ragione, potrebbero avvalersene coloro che presentano varie difficoltà di crescita e i bambini con plurihandicap. La mia prima esperienza educativa è avvenuta in un Istituto Speciale in provincia di Avellino. Lì era naturale che la situazione di apprendimento degli alunni era dipendente dagli educatori. Vi erano 8 bambini e 5 ragazzi pluriminorati, per loro il bisogno di dipendenza era più accentuato ed erano evidenti comportamenti passivi. In quel caso, era giusto che quei bisogni venissero soddisfatti, ma bisognava evitare atteggiamenti collusivi tra bambino e corpo docente. Mi riferisco a quei casi in cui, se manca l’insegnante di sostegno, è la fine del mondo!

La relazione educativa mi ha aiutato a scoprire, insieme all’alunno, spinte magari minime, nascoste (dietro un atteggiamento apatico, distaccato, dietro una difficoltà motoria) verso la loro spontaneità, una relazione forte per la loro crescita.

Un difficile compito educativo consisteva nella capacità di gestire l’aggressività, porre dei limiti a questa.

C’erano bambini e ragazzi più violenti di altri, che avevano difficoltà ad autolimitarsi e che potevano essere essi stessi spaventati dalla propria distruttività. Era necessario in quel caso riuscire a trovare un atteggiamento molto fermo, ma disponibile, evitando risposte particolarmente repressive e facendo sì che gli aspetti di personalità più costruttivi del singolo e quelli del gruppo potessero emergere.

Ho capito che se un alunno trova una risposta positiva, degli argini ai suoi impulsi aggressivi, sarà un po’ più forte dentro di sé.

Ogni educatore dovrebbe riconoscere, capire e tener conto della propria personale suscettibilità interna rispetto all’aggressività, quanto egli può essere vulnerabile ad essa, intollerante o spaventato (una risposta repressiva può essere dovuta a questi fattori), oppure, al contrario, sentirsi sufficientemente tranquillo per affrontarla. Ognuno di noi ha una propria reattività interna verso comportamenti violenti.

A volte, alcuni alunni possono vivere sentimenti anche intensi, ma poco realistici (paure, invidie, odio, amore) verso l’insegnante. Tali affetti possono avere un valore di transfert (trasferimento inconsapevole sull’insegnante di emozioni, atteggiamenti sperimentati originariamente verso rappresentazioni interne di altre persone, per lo più genitori o parenti stretti), ma sono veri (nel senso che sono vissuti come tali dal bambino) e non possono essere eliminati così facilmente. In queste circostanze la funzione dell’educatore è quella di facilitare nell’alunno una percezione realistica, attraverso un comportamento in cui non si lascia indurre a seguire le pressioni che il bambino può sollecitare in lui (ad es., bambini che hanno bisogno di essere puniti, altri di essere compatiti, ecc., spesso inducono nell’adulto atteggiamenti punitivi o compassionevoli).

Un atteggiamento dell’insegnante orientato in senso realistico gradualmente favorisce l’Io nella dimensione di contatto con la realtà e la spinta delle proiezioni inconsce si riduce.

Vorrei concludere ricordando una disposizione psichica naturale dell’essere umano, su cui mi sono soffermata più volte: la capacità introiettiva (il mettere dentro psichicamente) e quella identificatoria (che ne è una conseguenza più evoluta). Se un soggetto in età evolutiva, nel suo percorso scolastico, avrà la possibilità di introiettare esperienze positive e di identificarsi con aspetti “buoni” di adulti (insegnanti) o di coetanei, se potrà internalizzare le funzioni benefiche di costoro, sicuramente nell’intera esperienza educativa si potrà riconoscere, come esito, quello di aver apportato dei contributi alla costruzione di un Io più solido.

La docente: Ferrante Maria Domenica